"I Giardini di Abele"

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“I giardini di Abele” è un Docu-film, prodotto da Sergio Zavoli nel 1969, che ruota attorno al processo di trasformazione istituzionale intrapreso da Franco Basaglia e la sua équipe all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia. A partire dal novembre del 1962, data in cui Basaglia arriva a Gorizia, si inaugura una nuova stagione della psichiatria sulla scia delle orme tracciate dalle comunità “terapeutiche inglesi”. Tali comunità furono per molto tempo studiate e osservate da Basaglia, siccome introducevano nelle loro pratiche una maggior propensione all’esercizio dialettico da parte della classe medica nei confronti delle persone alienate. il percorso di deistituzionalizzazione di Gorizia iniziò dunque attraverso un processo di conversione dei diversi  reparti dell'ospedale psichiatrico in una "comunità terapeutica". Un’iniziativa che non poteva prescindere dall’abbattimento delle recinzioni e dei cancelli dell’ospedale psichiatrico, in quanto ritenuti ostacoli sia materiali sia psicologici al corretto percorso di riorganizzazione istituzionale e quindi di salute delle persone.

Basaglia sottolineò a più riprese nel corso della sua vita il significativo valore di denuncia civile che l’esperimento di apertura del reparto psichiatrico a Gorizia comportò.

Nel reportage di Zavoli, composto da numerose interviste rivolte sia alla classe medica sia alle persone internate, emergono le diverse posizioni di allora in merito al percorso di deistituzionalizzazione. Non mancano quindi nei protagonisti del film riflessioni, perplessità e aspre critiche oppositive all'esperimento basagliano, considerazioni sul ruolo degli infermieri viste da taluni come guardie carcerarie e da altri come elemento da non snaturare, valutazioni sulle violenze inflitte ai ricoverati e sull’assenza del valore morale e dell’efficacia della cura dei malati psichiatrici nelle strutture detentive tradizionali. Durante l’intervista contenuta nel docufilm all’accusa più spesso mossa nei confronti del suo progetto, ovvero che si tratti «più una denuncia civile che una proposta psichiatrica» Franco Basaglia risponde «Io non saprei proporre niente di meno psichiatrico di un manicomio tradizionale, di un ospedale dove i malati sono legati», e dove sono a «una condizione di sudditanza e di cattività da parte di chi li deve curare». Non ci può essere cura, osserva Basaglia, se non c’è «una situazione di libera comunicazione tra medico e malato».

All’accusa di fare sociologia, più che psichiatria, Basaglia risponde che effettivamente esistono «due tipi di psichiatria, quella per i poveri e quella per i ricchi». Un’osservazione che allude al fatto che il malato di mente, che ha a disposizione mezzi e relazioni, viene curato in cliniche, mentre chi è povero ed emarginato finisce nei gironi dell’ospedale psichiatrico, divenendo automaticamente un soggetto potenzialmente pericoloso. Il manicomio – dice Basaglia - è diventato, al pari del carcere, il luogo in cui va a finire chi «disturba». Ma il malato di mente può certamente essere pericoloso, ma la sua pericolosità «dipende da molteplici fattori, e anche la sua pericolosità può essere gestita». In conclusione, Basaglia osserva che è necessario «avvicinarsi al malato», attraverso un processo dialettico tra chi è custode del mandato di cura della persona e chi dovrebbe ricevere tali cure.