Legislazione sulla follia

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La storia dell’assistenza ai malati mentali non nasce come risposta a un problema medico, bensì per sedare esigenze sociali: il cittadino sano chiedeva allo Stato che il folle fosse assicurato alla giustizia e messo nelle condizioni di non nuocere. Ciò ha determinato che le norme riguardanti la malattia mentale ricadessero nel diritto penale, e che la pena prevista per il malato mentale fosse la segregazione e la sospensione dei diritti civili. Così all’inizio dell’Ottocento i malati mentali si trovavano nella condizione di essere mescolati e confusi con i delinquenti e con i prigionieri politici. In questo clima repressivo, nel 1814 in Inghilterra, venne istituita la prima commissione per l’indagine sui manicomi, ma fu solo più tardi che in Francia e in Svizzera vennero emanate le prime leggi manicomiali con lo scopo di regolamentare sia le ammissioni che le dimissioni degli alienati da tali strutture.

La legge italiana è figlia di quella francese del 1838, la quale regolamentava le modalità e le condizioni del ricovero in manicomio, dove appunto venivano ricoverate le persone secondo quella che diventerà la famosa formula “pericolose a sé stesse e agli altri e che creano pubblico scandalo”.

Nel 1861, all’atto della proclamazione del nuovo Stato italiano, il presupposto che la follia fosse una comune malattia, e come tale di competenza della medicina, era largamente accettato ma, come testimoniano i diversi progetti di legge sull’assistenza ai malati mentali, il ricovero veniva largamente pensato come coatto e quindi presentato come una necessità sociale, più che sanitaria.

Il punto di partenza in Italia, come è universalmente noto, fu la prima legge organica in materia approvata nel 1904, che istituiva il manicomio quale struttura cardine dell’assistenza ai malati mentali. Le esigenze di controllo e di custodia lasciavano il malato in balia di una intrusività istituzionale spersonalizzante e scarsamente terapeutica. Questa è legge rimasta in vigore per oltre settanta anni. La legge 1904 dava un ordinamento ai manicomi: regole necessarie per ricoverare i pazienti, per dimetterli e per gestirli. Appariva però con punti oscuri e molti difetti. «Difende la società dai malati, non difende i malati, in quanto considera i disturbi mentali largamente incurabili, notevolmente carichi di pericolosità per i malati stessi e per gli altri» (Ossicini, 1948). Il malato mentale, così etichettato, veniva isolato e segregato in istituto, veniva custodito ma non preso in cura in senso psicologico. Il ricovero coatto veniva adottato in una logica di difesa sociale, ponendo la sicurezza pubblica al centro delle motivazioni e dell’attuazione del provvedimento. Tutti i disturbi mentali finivano per essere considerati pericolosi, prevedendo l’obbligo del ricovero nei casi di pazzia, anche quando in realtà tali soggetti non erano pericolosi, ma solo bisognosi di cura, e finivano per essere trattati analogamente ai delinquenti e ai criminali. La legge del 1904 portava il nome di Giolitti ed entrò in vigore con il regolamento del 1909.

La seconda fase si apre con la promulgazione della Legge Mariotti del 1968, che introduce il ricovero volontario in Ospedale Psichiatrico e istituisce i Centri di Igiene Mentale (CIM).

La terza fase si apre con la legge 180 del luglio 1978. La legge viene approvata in fretta sotto la spinta minacciosa di un referendum abrogativo, nella convinzione che il referendum sarebbe stato sconfitto e che la conferma del "manicomio" avrebbe riportato una maggioranza schiacciante. La legge ha il merito di aver determinato il passaggio dal prevalente interesse custodialistico ad un approccio terapeutico.

Il 16 maggio del 1978 veniva pubblicato, sulla Gazzetta Ufficiale, il testo della legge 180, sotto il titolo Accertamenti e Trattamenti Sanitari Obbligatori, meglio conosciuta come legge Basaglia.